lunedì 17 ottobre 2011

IL GIORNO IN CUI DIVENNI CLEOPATRA


Il giorno in cui divenni Cleopatra ero sdraiata sul lettino blu di una spiaggia che tre anni prima era pubblica. Al sole, o all’ombra, esattamente non lo ricordo.
E accadde che Guillame si sollevò lesto dalla sabbia, si tolse il sudore dalla fronte col palmo di una mano e seguì l’ordine invocatogli doucement da Chantal:
- Riesci a spostarla senza farla alzare? Basta che si appoggi bene al lettino, secondo me.
- Ma no dai! Mi dai una mano e mi alzo. Non trascinarmi – dissi io.
- Violette, sh! Stai tranquilla, ci pensiamo noi.
- Ha ragione tua sorella! Se ti sdrai bene, appoggi la testa, ti tieni con le braccia al lettino, ti sposto io. Non sforzi le ginocchia che già ti fan male.
- Mi arrendo.
E fu così che lui mi trascinò per cinque metri sulla sabbia. Come se fosse uno di quegli uomini coi lacci sui polpacci che sollevavano e portavano in giro su un lettino Cleopatra. Come se io fossi fatta di carta. E Diari di Sylvia Plath, la crema e il cappellone di paglia sgualcito che erano stati trasportati con me, pesassero più del mio corpo.
Debole.
Indolenzito.
Perché cercavo, se potevo, di fare due bagni al giorno.
In quel mare così limpido e caldo, che sembrava un cielo d’estate. Che nel cielo si vola. E nell’acqua, molte persone, anche. Sembra d’essere così evanescenti, veloci, senza grovigli di legno nella testa. Con l’acqua che ti scivola addosso e ti solleva. E le gambe che ti sembrano ali, anche se pesi quarantotto chili.
Chantal? Chantal avreste dovuto vederla. Quando entrava in acqua, con quelle sue gambe così tornite e con quel costume chiaro, sembrava una Ursula Andress dei giorni nostri.
E quando finivo di nuotare, mi sorreggeva da sotto le ascelle. Io spingevo all’insù i glutei, stendevo le gambe ad accarezzare l’acqua, e iniziavo ad aprirle e chiuderle, come lame di un paio di forbici. Per cinque serie da dieci. Finché ero sfinita.
E Guillame e Chantal mi sorreggevano tra le onde calme di Alimini.
E Guillame che mi solleva e mi prende in spalla quando l’acqua mi arriva alle ginocchia.
E gli occhi dei bagnanti.
E Guillame che fa lo slalom tra gli ombrelloni, gli asciugamani, i sederi delle persone.
E altri occhi dei bagnanti.
E Guillame che mi lascia accanto al lettino.
E gli occhi incollati sul mio corpo.
Al sole.
Che ritornano alle loro facce, alle loro mani, ai loro piedi insabbiati.
E, dopo il sole, la spiaggia, di nuovo a casa con quei cinque gradini. Due all’esterno. Tre, a tradimento, all’interno. Nascosti dietro la porta.
E Chantal, il primo giorno in cui arrivammo a Vignacastrisi, li aveva guardati inorridita:
- Guillame, ma non dovevano essere solo due?
- Mi spiace. Non so cosa dirvi… mi aveva detto due.
Si era lasciata cadere la borsa dalla spalla e l’aveva abbandonata in un angolo, mentre le lacrime le cosparsero il viso.
Corse in bagno (Porca troia! Non è giusto!)
[Non è giusto.
Non è giusto che Violette abbia difficoltà anche in vacanza. Che tu chieda quanti gradini ci sono. E la gente non capisca che fanno differenza due o cinque gradini. Ce ne sono ben tre, nel mezzo!
Ma se non hai una miopatia congenita centro nucleare, o qualcosa di simile, probabilmente non ci fai caso.
I bambini di quattro anni sanno contare con le dita sporche di nutella fino a cinque.
Forse loro. Sì.
Forse loro ci fanno caso.]
Ma erano pensieri di Chantal.
E basta.
Perché io, ormai, a trentun’anni ho imparato a ingoiare quelle cose.
Che se ne assapori il gusto amaro, poi ci stai troppo male. E.
Quasi niente
Cambia.
E arrivati in quella casa, dopo essere stata presa sulle spalle da Guillame per quei gradini, dopo essermi lavata, cambiata, c’erano i profumi dei piatti di pesce di Chantal.
O c’erano le sagre. Che nel Salento, ogni sera ce n’è una diversa. Anche se, per una come me, fare la vita da spiaggia e poi uscire la sera, non sempre è così tanto un divertissement.
Che,
a volte, tutto, comprese le più piccole cose come il trascinare i piedi a casa, l’incollarsi i cerotti antidolorifici sulle ginocchia, vestirsi, truccarsi, farsi riprendere in spalla per farti quei cinque – uno, due, tre, quattro, cinque – maledetti gradini.
Ed ero stata a diverse sagre. In cui la gente si catapultava come cellule di un cuore pulsante. Un cuore tondo all’odore di fritto e al sapore di municedde, cranu stumpatu o di frisella.
La volta della sagra della cucina salentina, Chantal e io finimmo al tavolo con una sciura beneducata di Milano.
Una di quelle signore eleganti. Coi capelli bianchi di riso, la faccia incisa dalle rughe e due piedi buoni in delle decolletè rosse.
Eravamo sedute all’amazzone sulla panca di fronte a lei. Con le nostre gonne corte e le nostre gambe semiabbronzate.
Guillame stava facendo la fila alla cassa. E il marito della signora coi capelli di riso, anche.
E quella signora beneducata si mise a dire all’amica seduta accanto, più vecchia di lei, (lo si capiva da come le tremava la bocca) che lo smalto scuro, sulle mani, le dava l’idea di sporco, di trascuratezza. Una brava donna fa le pulizie di casa, ha sempre le mani in ammollo, non può avere le unghie colorate.
- E poi quelle unghie così scure, in cui non si vede la lunetta, mi danno un’idea di persona malata.
E Chantal quella sera aveva le unghie verde petrolio. E le mie erano blu notte.
E le nostre bocche erano a cinquanta centimetri da quelle delle due signore.
Quando Guillame tornò da noi coi vari bigliettini per le cibarie, lui e Chantal fecero le code nei vari stands, mentre io restai seduta tranquilla con le mie ginocchia in briciole.
Dopo appena dieci minuti tornarono e in altrettanto tempo mangiammo. Col brusio in sottofondo della signora beneducata e del marito che, con le loro schiene dure appoggiate alle mattonelle di roccia dietro la panca, criticavano le sei euro eccessive per un piatto di pasta al pomodoro.
Bevemmo il liquore alla liquirizia, la grappa, il limoncello e, quando ci alzammo e salutammo (per lasciare il posto a una famiglia di tre persone) la signora coi capelli di riso, si accorse che una delle due ragazze con le unghie dipinte di scuro, si appoggiava al braccio del ragazzo e dell’altra ragazza per camminare nella piazza. Per non storcersi le caviglie su quelle mattonelle.
E restò lì. Per un attimo ammutolita al tavolo.
Pensate se solo avesse saputo, che un giorno ero anche stata Cleopatra.